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Zanella, Aganoor e Leopardi

Il poeta vicentino aveva affidato alla diletta allieva padovana
Vittoria Aganoor uno “scrittarello”, ancora inedito,
copiato in casa Leopardi, intitolato “Pensieri sulle donne”.

di Loretta Marcon

Giacomo Leopardi non conobbe Padova né Venezia, dove pure era stato invitato dall’amico Antonio Papadopoli.
Il Veneto però è ben presente in ambito leopardiano poiché quei libri che costituirono il suo sterminato universo culturale uscirono dai torchi delle stamperie padovane e veneziane dell’epoca o, addirittura, furono scritti da autori veneti. Un legame indiretto fino ad un certo punto, dunque. La Mostra bibliografica «Leopardi e la cultura veneta» (Padova, 7-31.5.1998), allestita in occasione del bicentenario leopardiano, ha reso testimonianza di tale legame così che ci sembra di poter annoverare a pieno titolo la nostra regione nell’universo leopardiano.

Da pochi mesi, grazie ad un inedito, siamo a conoscenza di un altro particolare avvenimento che unisce Leopardi – indirettamente ma in modo certo – a Padova e Vicenza. Coinvolge, infatti, l’abate poeta vicentino Giacomo Zanella e, insieme, la poetessa padovana Vittoria Aganoor, la sua diletta allieva.

La copertina del saggio che sviluppa l’argomento di questo post: L’“inedito scrittarello” dello Zibaldone.
Una lettera sconosciuta di Giacomo Zanella a Vittoria Aganoor, La Scuola di Pitagora editrice, Napoli 2019.

Prima di entrare nello specifico, ricordiamo che lo Zanella, fin dai tempi degli studi liceali, fu affascinato dalla figura del poeta di cui portava il nome. L’amore per i temi della poesia leopardiana ben si comprendono anche solo pensando a quella malinconia perdurante che lo tormentò, all’insoddisfazione della vita, che condusse ritirata soprattutto dopo una malattia depressiva, e al suo sempre presente desiderio di serenità.
Da questa comunione d’anime facilmente nacque nel poeta
vicentino il desiderio di visitare Recanati e la casa dov’era nato quel poeta che tanto ammirava ma soprattutto amava.
Probabilmente anche grazie alla conoscenza dell’abate Giovanni Battista Dalla Vecchia, anch’esso proveniente dalla provincia di Vicenza, ebbe una frequentazione con la famiglia Leopardi dell’epoca e carteggiò con Teresa Teja, seconda moglie di Carlo Leopardi.
Un aspetto che lo caratterizzava era la sua predilezione per
la figura femminile e l’attrazione verso l’immagine della donna letterata.
Secondo la sua biografa Elizabeth Greenwood, Zanella «considerava l’arte incontaminata in mano alle donne che erano in grado di sollevarsi al di sopra degli eccessi e dei vizi del mondo».
La sua allieva Vittoria Aganoor, poetessa padovana, si situa in quest’aura sensibile e il loro rapporto non fu meramente
quello di docente-studente, ma un amalgama unico, pregno di quell’affetto e di quella devozione profonda di cui solo due anime affini sono capaci.
Risulta dunque ben comprensibile l’omaggio che il professore
invia alla sua scolara – sono termini che la stessa Aganoor usa nel carteggio con Zanella – allora diciassettenne.
Il 14 marzo 1872 Giacomo Zanella inviava questa lettera:

“All’ottima giovinetta Vittoria Aganoor.
Affido alla sua custodia questo prezioso scrittarello di Giacomo Leopardi. È di mano del ministro di casa Vito Frati, che dopo aver lungamente e lealmente servito casa Leopardi, non ebbe degno guiderdone dai nipoti di Giacomo.
A me donollo chi fu per qualche anno aio e bibliotecario
in casa Leopardi. Non occorre dire che lo scritto è inedito. Di Lei aff.mo Giacomo Zanella”.

Lettera autografa di Giacomo Zanella inviata a Vittoria Aganoor il 14 marzo 1872, pubblicata per la prima volta nel saggio L’“inedito scrittarello” dello Zibaldone. Una lettera sconosciuta di Giacomo Zanella a Vittoria Aganoor – La Scuola di Pitagora editrice, Napoli 2019.

Se la missiva risulta preziosa per il suo valore di inedito, ancora più rilevante essa appare grazie allo scrittarello ad essa allegato. Si tratta, infatti, di un manoscritto apografo che riproduce in una pagina (cm 20,5 per cm 16) vergata recto e verso, una delle pagine più poetiche dello Zibaldone di Giacomo Leopardi; una pagina che si ricollega ad una delle luci più vivide della sua poesia, ad A Silvia, ai meravigliosi
versi «veramente all’antica» sbocciati, dopo tanto tempo, nel Poeta dal «[suo] cuore d’una volta» (lettera del 2.5.1828).
La pagina leopardiana descrive mirabilmente le sensazioni ineffabili che suscitano le giovinette, angeli di felicità, la loro
freschezza purissima e ancora ignara delle malizie femminili:

“Una donna di 20, 25 o 30 anni ha forse più d’attraits, più d’illecebre, ed è più atta a ispirare, e maggiormente a mantenere, una passione. Così almeno è paruto a me sempre, anche nella primissima gioventù: così anche ad altri che se ne intendono (M. Merle). Ma veramente una giovane dai 16 ai 18 anni ha nel suo viso, ne’ suoi moti, nelle sue voci, salti ec. un non so che di divino, che niente può agguagliare. Qualunque sia il suo carattere, il suo gusto; allegra o malinconica, capricciosa o grave, vivace o modesta; quel fiore purissimo, intatto, freschissimo di gioventù, quella speranza vergine, incolume che gli si legge nel viso e negli atti, o che voi nel guardarla concepite in lei e per lei; quell’aria d’innocenza, d’ignoranza completa del male, delle sventure, de’ patimenti; quel fiore insomma, quel primissimo fior della vita; tutte queste cose, anche senza innamorarvi, anche senza interessarvi, fanno in voi un’impressione così viva, così profonda, così ineffabile, che voi non vi saziate di guardar quel viso, ed io non conosco cosa che più di questa sia capace di elevarci l’anima, di trasportarci in un altro mondo, di darci un’idea d’angeli, di paradiso, di divinità, di felicità.
Tutto questo, ripeto, senza innamorarci, cioè senza muoverci desiderio di posseder quell’oggetto. La stessa divinità che
noi vi scorgiamo, ce ne rende in certo modo alieni, ce lo fa
riguardar come di una sfera diversa e superiore alla nostra, a cui non possiamo aspirare. Laddove in quelle altre donne troviamo più umanità, più somiglianza con noi; quindi più inclinazione in noi verso loro, e più ardire di desiderare una corrispondenza seco. Del resto se a quel che ho detto, nel vedere e contemplare una giovane di 16 o 18 anni, si aggiunga il pensiero dei patimenti che l’aspettano, delle sventure che vanno ad oscurare e a spegner ben tosto quella pura gioia, della vanità di quelle care speranze, della indicibile fugacità di quel fiore, di quello stato, di quelle bellezze; si aggiunga
il ritorno sopra noi medesimi; e quindi un sentimento di compassione per quell’angelo di felicità, per noi medesimi, per la sorte umana, per la vita, (tutte cose che non possono mancar di venire alla mente), ne segue un affetto il più vago e
il più sublime che possa immaginarsi (Fir. 30. Giu. 1828)”.

Il brano leopardiano trascritto furtivamente
su un foglio volante dal ministro di casa Leopardi Vito Frati,
pubblicato per la prima volta nel saggio L’“inedito scrittarello” dello Zibaldone. Una lettera sconosciuta di Giacomo Zanella a Vittoria Aganoor – La Scuola di Pitagora editrice, Napoli 2019.

Al di là di un esame filologico, che qui non è il caso di proporre, sono due gli elementi immediatamente evidenti rispetto all’autografo leopardiano: l’apposizione
del titolo Pensieri Sulle Donne e, sulla sinistra, in capo al primo foglio, la nota scritta da altra mano, che consente l’identificazione dell’autore del manoscritto: «Di mano del ministro di casa Leopardi Vito Frati».
Ma perché risulta importante per lo studioso leopardista questo apografo?
Per comprenderne appieno il valore dobbiamo fare riferimento alla data di pubblicazione del “diario” leopardiano che rimase sconosciuto agli studiosi fin agli ultimissimi anni del 1800. Dopo la morte di Leopardi, infatti, lo Zibaldone e altri manoscritti leopardiani rimasero proprietà di Antonio Ranieri che aveva designato, quali eredi, due fantesche analfabete, dispensandole persino da ogni cura.
Dopo una complessa e difficile vicenda giudiziaria, fu istituita una Commissione (14 ottobre 1897) presieduta da Giosuè Carducci e l’opera vide la luce tra il 1898 e il 1900, con il titolo: Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura di Giacomo
Leopardi (Le Monnier, Firenze 1898).
Un anno prima, mentre fervevano i lavori per l’approntamento della prima edizione, fu però pubblicata, come anticipazione del testo completo e per dimostrarne l’importanza, un’edizione scelta di brani dell’Opera in sole venti copie (Tipografia del Ministero degli Affari Esteri, Roma 16 dicembre 1897).
Dunque fino ad allora nessun altro, oltre al suo autore, aveva posato gli occhi su quel manoscritto. Ed è proprio la lettera
dello Zanella a dimostrare invece che vi fu la violazione di quelle pagine che il suo autore conservava gelosamente e con la massima riservatezza e che nessuno conosceva, neppure la sorella Paolina che pure fu sempre la sua copista.
Considerando la data della pagina leopardiana di cui parliamo, 30 giugno 1828, l’unica possibile risposta, relativa al momento preciso in cui avvenne il fatto, si riferisce all’ultimo
soggiorno recanatese di Leopardi, dunque nel periodo che va dal novembre del 1828 alla fine di aprile 1830, un periodo
che egli stesso chiamò l’orrenda notte di Recanati; un periodo difficile e doloroso dovuto al patimento profondo, fisico
e morale che lo prostrava totalmente.
In quei giorni un prezioso sollievo fu il comporre:
Felicità da me provata nel tempo del comporre, il miglior tempo ch’io abbia passato in mia vita, e nel quale mi
contenterei di durare finch’io vivo
(Zib. 4418-19 del 30.11.1828).
Le annotazioni nello Zibaldone si fermano al 5 settembre 1829, mentre quasi contemporaneamente nascono i versi de
Le ricordanze, della “Quiete dopo la tempesta”, del “Sabato del Villaggio”, del “Canto notturno di un pastore errante”.
Il temporaneo abbandono, da parte di Leopardi, del suo privato “mondo di carta” probabilmente favorì un’intrusione da parte di qualcuno che aveva facoltà di movimento
in casa. Chi dunque avrebbe potuto e, soprattutto osato violare la riservatezza di un “diario” che neppure i fratelli avevano mai letto?
Ci viene dunque in soccorso quell’annotazione, più sopra da noi citata, che identifica l’autore dell’apografo in Vito Frati, ministro di casa Leopardi. Un personaggio sconosciuto agli studiosi leopardisti il cui nome abbiamo reso noto grazie
ad una recentissima ricerca sulla seconda parte della vita di Paolina Leopardi (Paolina Leopardi e le cose di casa. La Causa
civile, lettere e documenti inediti, Guida editori, Napoli 2019).
Il Frati vi compare prima quale testimone presente alla redazione del testamento di Monaldo Leopardi e poi come elemento attivo, e forse istigatore, nella Causa legale che la contessa Paolina dovette intraprendere per difendere i suoi diritti ereditari.

La copertina del saggio: Paolina Leopardi e le cose di casa.
La Causa civile, lettere e documenti inediti, Guida editori, Napoli 2019

Non conosciamo altre notizie intorno a questo personaggio (1799-1869), di cui con difficoltà siamo riusciti a ritrovare le date, poiché l’archivio di Casa Leopardi non è consultabile. Ma da ciò che scrive lo stesso Zanella («non ebbe degno guiderdone»), da qualche accenno della stessa Paolina nelle sue lettere alla cognata, ma soprattutto dal ruolo che egli
rivestì nel procedimento legale cui si è accennato, si può ben immaginare come fosse un amministratore capace ma anche
scaltro e soprattutto insoddisfatto da ciò che ricavava dall’esercizio delle sue funzioni.
Rimane ignoto il motivo o lo scopo per cui il Frati violò la privatezza dei fogli leopardiani, addirittura apponendo un titolo di sua iniziativa. Pensiamo, comunque, che non vi fosse intenzione “dolosa” poiché quella pagina fu ritrovata fra le carte di famiglia e non fu, quindi, fatta propria dal suo autore.
L’origine di quel manoscritto, come si è detto, risale al periodo dell’ultima permanenza recanatese di Giacomo Leopardi, dunque tra il 1829 e il 1830. Fu poi ritrovato dopo la morte del Frati, probabilmente dall’abate vicentino Dalla Vecchia (che conosceva lo Zanella e a lui donò quell’inedito), convocato dagli eredi Leopardi intorno al 1860 come bibliotecario e precettore dei figli, rimasti orfani di Pierfrancesco Leopardi, il fratello del poeta che continuò la dinastia di famiglia.
E forse fu proprio sua la mano che aggiungendo un nome consentì l’identificazione dell’autore dell’apografo; l’ipotesi
viene avvalorata se si pensa che solo una persona in grado di confrontare la grafia con altri documenti presenti nell’archivio di famiglia, poteva senza dubbio alcuno
scrivere quell’annotazione.

La poetessa Vittoria Aganoor a 18 anni.

Alla fine del nostro percorso possiamo immaginare come Giacomo Zanella, con la sua acuta sensibilità, dovesse sentire
profondamente quella pagina leopardiana, quasi fosse scaturita dalla sua stessa anima. Un foglio prezioso perché inedito e sconosciuto che egli dona alla giovane Vittoria quasi le spettasse di diritto, il diritto che le veniva dall’essere in quel momento un «angelo di felicità» dal quale traspariva «un non so che di divino».
Dopo tanti anni rinasce così l’incanto che affascinò il giovane poeta Giacomo Leopardi all’udire il canto di Teresa Fattorini.
Rinasce nel poeta maturo Zanella abbagliato dalla giovinezza di Vittoria dedita precocemente e con valore alla poesia.
Leopardi e Teresa/Silvia, Zanella e Vittoria: un intreccio magico che trova la sua stessa esistenza grazie a quella pagina, ricopiata probabilmente di nascosto e per scopi a noi sconosciuti, che appare tra le più belle dell’intero Zibaldone leopardiano.

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