Giacomo Zanella, il “Poeta dell’unità d’Italia”
da La Voce del Sileno di Italo Francesco Baldo
Anno V – 10 giugno 2020
“Vicenza! Vicenza! Eri la città gentile: or sei detta la forte della Venezia. Era il dieci giugno del Quarantotto: il nemico ti avea chiusa: dai colli e dalla pianura fulminavano cento bocche di fuoco. vittime care insanguinarono i nostri colli; … Andiamo, andiamo sui colli; baciamo la terra che copre quelle benedette reliquie; alziamo monumento di gratitudine a’prodi, che con tanti atri fratelli d’Italia si votarono a morte, perché noi godessimo il frutto del loro sacrificio…
Morirono giovani, nel pieno della vita e delle speranze: morirono deserti, senza il bacio delle madri e delle sorelle, e forse senza un pio, che venisse a santificare colla religione la loro fine. voi sopra tutti accolga Iddio nella sua pace…
Se l’adempimento del dovere ha premio in cielo: se il disprezzo della vita per una nobile idea, è l’emblema dell’eroe cristiano; se dare il proprio sangue pel bene pubblico, è il massimo dei benefici, la religione terrà caro e sacro il nome di que’gloriosi, come ne’ suoi fasti gli ha già registrati la patria.”
Con queste parole, tratte dal Discorso letto dall’ab. Giacomo Zanella nelle solenni esequie pei caduti nelle guerre del risorgimento d’Italia celebrate nella cattedrale di Vicenza il giorno 10 ottobre 1866 (Vicenza, Tip. Naz. Paroni, 1866 e Venezia, Gaspari, 1866), l’Abate Giacomo Zanella, di cui ricorre il bicentenario della nascita (Chiampo 1820) il 10 ottobre 1866 si rivolgeva in una chiesa affollata di clero e popolo a coloro che diedero la vita per l’unificazione d’ Italia. Il “poeta dell’unità d’Italia”, come fu chiamato lo Zanella aveva ben in mente i fatti accaduti tra il marzo e il 10 giugno 1848 a Vicenza, nel Veneto e in molte zone del Regno Lombardo Veneto. (cfr. G. Zanella il poeta dell’Unità d’Italia, Monticello Conte Otto, 2011)
Vicenza insorse, il malcontento era diffuso e le idee di unità erano diffuse e ben conosciute soprattutto nelle elaborazioni di Antonio Rosmini e Vincenzo Gioberti, autori studiati soprattutto nel Seminario vicentino. Gli avvenimenti di quel periodo dove gli insorti furono aiutati anche dalle truppe pontificie al comando del generale piemontese Giovanni Durando è storia, purtroppo poco nota e quasi mai riportata dai manuali di storia scolastici, eppure proprio quel 10 giugno, dove gli insorti furono sconfitti, segnò il destino della prima guerra di Indipendenza italiana.
Certo il maresciallo Josef Radetzky, comandante supremo delle truppe austriache ebbe la meglio e concesse alle truppe del Durando l’onore delle armi, ma vi fu anche ci adombrò qualche “inganno” nella Vicenza. Fu il medico delle truppe pontificie Adone Palmieri che ne scrisse nel suo Alcune parole sulla battaglia di Vicenza o disinganno per molti, 1848. rist. con introduzione e nota biografico critica dello scrivente, Vicenza, Editrice Veneta, 2006. Ma la storiografia non ha “scavato” molto intorno a quelle vicende, che meriterebbero invece un approfondimento più puntuale.
Giacomo Zanella non partecipò in maniera fattiva agli avvenimenti, si pronunciò a favore, e questo, durante la repressione austriaca gli costò molto. Fu perseguitato anche con perquisizioni e il vescovo Giovanni Giuseppe Capellari, suo estimatore, fu pure sollecitato a licenziare il giovane sacerdote dall’insegnamento in seminario. Il vescovo si oppose, ma lo Zanella per non nuocere ai colleghi e allo stesso vescovo, si dimise, iniziando così per diversi anni una vita alquanto difficile, sostenuto però da amici, tra cui la famiglia Lampertico e Fogazzaro. Dal 1858, dopo severi esami di abilitazione, riprese l’insegnamento negli Imperial regi ginnasi liceali, dapprima a Venezia, poi a Vicenza ed infine a Padova. Nel novembre del 1866 fu iniziata la pratica per la sua nomina a professore di Letteratura Italiana all’Università. Lui che non ritenne mai, come il principe di Metternich l’Italia solo “una espressione geografia”, ma l’amò fin da fanciullo, grazie ai discorsi di Domenico (cfr. Domenico o della fanciullezza) l’Italia unita e poetò in L’uomo è nato alla società: “Pe’ tuoi giardini, Italia, / innamorato io movo;/dal Brennero al Vesuvio/ fratelli ovunque io trovo/ non come estranio io trovo; / i figli della Dora,/ quanto cortese è Flora/ cortese è il suo Roman…“terra gentil d’Italia / de’ geni antiqua stanza” Questa con tante altre composizioni ricorda agli Italiani il valore dell’unità, celebrando il centenario della battaglia di Legnano nel 1876, ad esempio, ma anche gli uomini che fecero l’Italia, tra cui il Cavour e il Generale Lamarmora. Sempre tenendo in conto “l’arte d’Italia e la materna fede” (Pel Taglio di un bosco), due elementi fondamentali per l’Italia e nei quali trovare forza ed animo.
Fu consapevole delle difficoltà del nuovo Stato, sia nell’istruzione, sia nelle questioni sociali, come l’emigrazione, o la spoliazione dei conventi ed invocava sempre che la malattia era conosciuta, ma “non havvi chi applichi il medicamento o il ferro”. La fiducia in una Italia nuova, rinnovata nei suoi fondamenti non venne mai meno nell’Abate e ricordando il poema di Gian Giorgio Trissino nel sonetto V dell’Astichello lo dice “Audace troppo, che cantò de’ Goti/ Sgombra l’Italia “e quei Goti sono identificati proprio gli stranieri che a lungo hanno vessato l’Italia.
Temi che ritorneranno nella poesia del 1871 Pel monumento dei caduti nella battaglia di Monte Berico il 10 giugno 1848 (Vicenza Paroni) e che ebbe anche una traduzione latina da parte del dott. Antonio Sandri, Vicenza, Stab. Tip. G. Raschi, 1897.
Composizione che lega indissolubilmente il sacrificio dei giovani, di cui aveva parlato nel Discorso, prima ricordato, all’amore di patria che proprio nella erezione del monumento deve trovare sempre i vicentini e gli italiani uniti “a coorte” perché chiamano “a’forti esempi”: Ben ricordando come il croato sacrilego usò i paramenti per gualdrappe dei cavalli, fece a brani la cena del veronese e in “ballo selvaggio” profanò la basilica dove la Maria signoreggia la “fida Vicenza e le campagne / che tortüoso il Bacchiglion feconda”.
E una poesia per un avvenimento importante, come lo sarà l’inaugurazione degli Ossari di San Martino e Solferino dove “come in un sonno i prodi / dormono appiè dell’italo cipresso”.
Ambedue ancora invitano gli italiani ad esser desti, a non farsi prendere “dall’ignavo sopor” e ad impegnarsi nelle “priche contrade” nei “fiorenti pascoli” e là dove “il turbine aspettano i nostri opifici”. Un invito che allora suonava di incentivo a nuovi orizzonti per l’Italia.
Oggi quella stessa poesia fornisce a Vicenza il valore degli Italiani che, uniti “voliamo al lavoro” e destiamo non fraterne dispute, non gelosie, frutto di parziale intendimento che si spaccia per intellettual pensierino o di conquiste di seggiole ormai consunte dal detto di Montaigne, ma “infiammata l’alma siano i giovanetti nati a veder più avventurosi tempi che alla patria facciano onore e vanto, cercando “a miglior mondo il varco?”
PEL MONUMENTO DEI CADUTI
Nella battaglia di Monte Berico
Il 10 giugno 1848
Il pellegrin, che l’erta,
Vicenza mia, de’tuoi colli guadagna,
E nella vista aperta
Della bianca di ville ampia campagna
L’animo pasce, o il portentoso inchina
Altar sacro de’ cieli alla Reina;
Tócco di meraviglia
E di pietà ne’ figuranti marmi
Affiserà le ciglia;
E membrerà l’ardir supremo e l’armi
De’ magnanimi tuoi, che del ritorno
Fêro al nordico Sire amaro il giorno.
Più morbidi i giacinti
Vide aprile sbocciar sulla pendice;
E de’ gentili estinti
Negli squarciati petti la radice
Abbeverata, più brune le rose
Il sen fregiâr dell’eretenie spose.
L’erba i vestigï asconde
Dell’umano furor: la pia frescura
Delle serpenti fronde
L’ellera stende sull’infrante mura;
E dove arse maggior l’ira nemica
Più folta al vento tremola la spica.
Con ala inesorata
Le memorie de’ forti il tempo invola,
Se pietra storïata
Non segna il loco; e memore parola
Al pensier de’ nipoti non richiama
De’ ben vissuti la remota fama
Uscite, o giovinetti,
È questo il dì: con me salite il colle,
Ove fraterni petti
Per noi di sangue colorâr le zolle.
Come oggi fiammeggiava il Sol di giugno;
Ma scintillar de’ mietitori in pugno
Già non vedea, come oggi,
L’adunco ferro; e vispe contadine
Sparse pe’ cheti poggi
Trarre a’gelsi, cantando, il ricco crine;
Fluttüavano al Sol cento bandiere
Tricolorate, e fremean dense schiere.
Da tiberini lidi
De’ prodi accorso il fior qui, co’ tuoi figli,
O mia Vicenza, io vidi
L’ora anelar degli ultimi perigli;
E lo Svizzero l’onta del venduto
Sangue lavar con generoso aiuto.
O qual di schiera in schiera
Grido trascorse nallor che dalle valli,
Che il Sol riscalda a sera,
il tuon si udì de’ barbari metalli
approssimarsi; e manifesto al guardo
sulle vette spuntò l’ostil stendardo!
Immobili custodi,
o patria mia, del fulminato saso,
Qui stettero i tuoi prodi,
Come i Trecento al glorïoso passo;
E sembrò he vittoria un’altra volta
Di lauro avrebbe la tua chioma avvolta![1]
Ma come smisurato
Serpe, che obbliquo si rigira e stende,
I colli d’ogni lato
Cinge il nemico e a flutto a flutto ascende;
Della stretta città l’orïentale
Fianco percote e le bastite assale.
Vidi, né mai dal core
Mi torrà ricordanza,
Virtù contro furore
Balda avventarsi in disperata danza;
Volgere in fuga il vincitor la fronte
E d’alterni baleni orrido il monte.
D’accese curve io vidi
Solcato il ciel: di ferro una tempesta
Cadea fra i lieti gridi
Della città, che sulle torri in festa
Già delle squille mescolando il suono
De’ guerreschi tormenti al rauco tuono.
Cadesti, o mia Vicenza,
Sotto possa maggior; ma la bandiera,
Che t’implorò clemenza,
Fulminasti tre volte; e grande e fiera
Da’carnefici tuoi torcendo il ciglio
Col tuo popolo uscisti a lungo esiglio.
O giovinetti! Il suolo
Sacro cerchiam! La valle ecco io v’addito,
Ove nemico stuolo
Attese l’alba inosservato: il sito
È là d’Azeglio; rassegnata a morte
Quinci volò l’elvetica coorte.
Qui, sulla sera, al raggio
Di rosseggianti fiaccole, il Croato
Menò ballo selvaggio,
Di sacri abiti involto; e l’ululato
Delle tue vie deserte e taciturne
Ripetean, patria mia, l’aure notturne.
L’are de’nostri eroi
Qui stanno, o giovinetti. A’forti esempi
L’alma infiammate or voi
Nati a veder più avventurosi tempi:
Pensate di che sangue e di che lutto
Voi raccoglieste portentoso frutto.
Rossor vi punga e sdegno
D’ozî infecondi: alla natal contrada
Date il bollente ingegno,
come i padri le diêro anima e spada;
Nominanza fra gl’Itali venturi
Per voi di forte e di gentil duri.
Il testo è disponibile in G. Zanella, Le poesie, Vicenza, N. Pozza, 1988, pp.155-159.
Nota: Il monumento ai Caduti di Monte Berico inaugurato il 10 giugno 1871, opera dello scultore milanese Antonio Tantardini (1829-1879), oggi non è nella posizione originale di fronte al Santuario poiché fu spostato nel 1924 per la realizzazione delle opere del Piazzale della Vittoria.
[1] La vittoria del 24 maggio contro il Nugent (nota di G. Zanella). Il conte Laval Nugent von Westmeath (Ballynacor, 3 novembre 1777 – Karlovac, 21 agosto 1862) è stato un generale austriaco di discendenza irlandese. Comandò un corpo d’armata contro il Regno di Sardegna; nello stesso anno contrastò la rivoluzione ungherese. Il fatto i riferisce alla battaglia sul poggio di Cornuda, dove 300 al comando di Ulisse d’Arco Ferrari cercarono di fermare gli Austrici. Ulisse d’Arco Ferrari (Pisa, 8 marzo 1786 – Firenze, 21 aprile 1869) è stato un militare italiano, luogotenente generale del Granducato di Toscana, comandante del primo contingente durante la Prima guerra d’indipendenza italiana.